LA STAZIONE SCOMPARSA, MEMORIE LETTERARIE NUORESI

«La stazione era bellissima»

(da Claudia Nieddu, Una linea di racconti)

La stazione scomparsa è la vecchia stazione ferroviaria di Nuoro, demolita alla fine degli anni ’50 del secolo scorso. Sorgeva a “Sa ‘e Marine”, oggi piazza Italia, stazione di testa della linea ferroviaria Macomer-Nuoro. Fu inaugurata il 6 febbraio 1889, giorno in cui la prima “vaporiera”, una locomotiva Winterthur, entrò sbuffando nella stazioncina, non molto più grande di una chiesetta campestre, accolta da una folla in delirio. Il viaggio durava 4 ore, il biglietto costava 0,75 lire (come si riporta in questo articolo). Anche la “selvaggia” Nuoro saliva finalmente in carrozza, entrava nella storia, iniziando, con i suoi 7 mila abitanti scarsi, il percorso da paese a città.  

Nel maggio del 1958 – quando l’urbe contava ormai oltre 20 mila residenti –  entrò in funzione la nuova stazione di Via Lamarmora perché quella vecchia di piazza Italia non bastava più. Della stazione ottocentesca non rimase traccia. Neppure una pietra, una lapide, una targa ricordo: nulla. S’istassione era diventata un pregevole edificio, ma si preferì abbatterlo, fagocitato da quella “sindrome demolitoria” devastante di cui abbiamo scritto in un precedente articolo. In fondo era ancora giovane, aveva settant’anni, che per una stazione non sono tanti. 

La stazione scomparsa continua però a vivere nelle parole di scrittori e poeti che ne parlarono, tramandandone la memoria. Sin dal loro apparire, treni, binari e stazioni entrarono dappertutto nell’immaginario letterario, e in più generale artistico, facendosi racconto, poesia, reportage, immagine. Basti pensare a Dickens, Hugo, Proust, Virginia Wolf, Zola, e tanti altri. Successe anche a Nuoro, in un misto di entusiasmo e spaesamento, come testimoniano le citazioni contenute nella Mappa Letteraria, con le quali proseguiremo ora il nostro viaggio. Si tratta di frammenti, passaggi più o meno lunghi all’interno di opere che parlano d’altro, ma che hanno lasciato tracce durature e compongono nel loro insieme il ritratto di un luogo ancora oggi ricordato con affetto e nostalgia.

L’arrivo del treno alla stazione di Sa ‘e Marine

«C’erano tutti a spiare l’arrivo di su caddu nieddu: il cavallo nero, l’ansimante caffettiera che, sbucando dai tornanti a strapiombo di Punta ‘e Dionisi, avrebbe portato in città il progresso. La gente innalzava cartelli con su scritto W IL PROGRESSO! e le scolaresche, intruppate più o meno disciplinatamente dai loro altrettanto eccitati insegnanti, sventolavano bandierine tricolori». Così scrive Alberto Caocci in un contributo apparso nel volume collettaneo Nuoro e il suo volto, da lui stesso curato insieme ad Ottorino Alberti. 

Prima del cavallo nero, alla stazione arrivava un altro cavallo, ma bipede,  Roffaele Bumbuddu, il mitico uomo-cavallo conosciuto da tutti i nuoresi. Lo ricorda Indro Montanelli, in Tagli su misura del 1960, che nel 1917 era giunto a Nuoro a seguito del padre Sestilio nominato preside della Scuola Normale. «E il trenino tossicoloso e ansimante, impennacchiato di fumo e di scintille perché andava a legna, non aveva più fiato per tener dietro al bipede destriero che trionfalmente lo batté al traguardo della stazione, dove lo accolsero gli osanna di un branco di ragazzacci»”. Ma la caffettiera, con l’arrivo delle automotrici Diesel, accelerò il passo e per Roffaele non ci fu più niente da fare. 

«Mesupezza ch’es tottu mandronia
fiti, a s’abesu suo, corcau ziccande;
e hat nau cand’hat bidu chi fruschiande
ch’est iserghia biacue sa ferrovia:
– Compà, gai Deus m’assistat, si credìa
chi si podèret goi currere bolande,
pro chi custu ingrediente, s’est andande,
la fachet fiuzas a s’acchettu ‘e zia!»

«Mesupezza che è tutto pigrizia
era sdraiato al suo solito e ciccava;
e disse appena vide che fischiando
frusciava via in quei pressi il treno:
– Compà, che Dio m’aiuti, non avrei creduto
che si potesse correre veloci come il volo
perché questo ingrediente, quand’è in corsa,
la fa anche al puledro della zia!»

(da Sebastiano Satta, Sa ferrovia)

Naturalmente, l’«ingrediente» della poesia di Sebastiano Satta è il treno – tanto veloce quanto Mesupezza è pigro -, nominato in questo modo come a indicare qualcosa di imprecisato e di stravagante.

Sa caffetera scendeva verso Nuoro sferragliando e sbatacchiando tra i precipizi e le boscaglie di Monte Dionisi, «seminando faville e scompiglio / tra stormi di cornacchie» (Peppino Mura, Sa caffetera). All’ultima curva fischiava ripetutamente, finché si fermava sfinita davanti alla piccola stazione e tutte le volte era come assistere a un miracolo, «il miracolo di giungere a Nuoro» (Salvatore Satta, Spirito religioso dei Sardi). Ricordava un po’ “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat”, il famoso cortometraggio dei fratelli Lumière che inventarono il cinema, anche se non c’era nessuno a riprenderla. 

A sinistra un fotogramma dal film “L’arrivée d’un train en gare de La Ciotat” girato da Louis Lumière nel 1897 e a destra una fotografia della stazione ferroviaria di Nuoro negli anni ’30 (Fonte Wikipedia)

La stazione scomparsa, una bellezza perduta

La vecchia stazione, quando era nata da poco, non piaceva a Grazia Deledda, che nel romanzo Il tesoro ne rimarca l’aspetto «oltre ogni dire triste e misero». Il capitano dell’esercito Alete Cionini, nel suo libro La Sardegna del 1896, un anno prima della pubblicazione del romanzo deleddiano, ne fornisce un’immagine più positiva. «… la bella stazioncina di Nuoro, ormai finita ed abitata, rallegrava un vicinato, fino allora trascurato, ed offriva, coi suoi viali e coi sui ameni dintorni, una bella passeggiata ed uno svago anche per gli arrivi e per le partenze dei treni». Lì accanto ombreggiava il giardinetto con «panchine di pietra, fitto di tigli e il roseto che ricopriva tutto un muro di cinta» (Franco Floris, Gli ingenui).

Giungere a Nuoro con il “cavallo nero” – o “d’acciaio”, per Marinetti – significava entrare nella bellezza del suo paesaggio. Sebastiano Satta, in uno scritto del 1893, se ne fa cantore. Il treno arriva alla stazione e «..Nuoro, tra la superba conca dei monti sorride, protesa verso il sole: il paesaggio tutto luce ed azzurro si spalanca gloriosamente». Il Gennargentu «scintillante» di neve, i monti di Oliena «brulli e rugosi», l’Ortobene «fremente d’elci». Qualche anno dopo, Grazia Deledda, nel romanzo sopra citato, sembra quasi fare eco al poeta. È una “veduta” più raccolta, prossima, che spazia dall’Ortobene alla «collinetta di Sant’Onofrio, coperta di quel tenero verde d’autunno che fa sognare». La bianca stazione era il luogo della felicità di quel guardare, inondato da una luce che veniva dal cielo, dai monti, e dall’anima. 

Oggi la vista di quel paesaggio amato è occlusa dagli alti palazzi che circondano piazza Italia. Uno di questi è il palazzo del Comune, né brutto né bello. Costruito verso la fine degli anni sessanta, a due passi dal punto in cui sorgeva la stazione scomparsa, fu il frutto di altre demolizioni e visioni più o meno insensate. Ma questa è un’altra storia. 

Questo doveva essere il paesaggio che Grazia Deledda vedeva dalla stazione di “Sa ‘e Marine”
L’originaria stazione di Nuoro nel 1937 dopo la ristrutturazione

Gambali e corbule

In una modesta stazione capolinea come quella di Nuoro si arrivava o si partiva, ma non si scendeva e si sostava per ripartire cambiando direzione. Come oggi. Il movimento di merci e persone, magari con bestiame e bidoni pieni di latte al seguito, era unicamente regolato dall’orario ferroviario. A una certa ora del giorno la stazione si animava, poi calava il silenzio, che si protraeva diverse ore sino al prossimo treno in arrivo o in partenza. Nel 1933 si alternavano tre coppie giornaliere di treni. Il primo treno per Macomer partiva da Nuoro alle alle 5,20 del mattino, alle 9,10 arrivava il primo treno da Macomer. Alle 10,40 secondo treno in partenza cui seguiva alle 14,20 il secondo in arrivo. Alle 15,30 terzo e ultimo treno in partenza e alle 21,30 terzo e ultimo treno in arrivo. La corsa durava tre ore e mezza. 

«La piccola stazione impregnata di denso fumo, brulicava di gente arrivata anche dal circondario per accompagnare e salutare i parenti che partivano», scrive Giovanni Piga in Sa andalas de su tempus. Erano «pastorazzi con le bertulas piene di formaggi che puzzavano da lontano» (Bachisio Floris, Tre ore). Contadine che uscivano dalla stazione con “sa corbula a cuccuru” (la cesta in testa).  «Signori in cilindro», con baffoni che sembravano «zanne di cinghiale», racconta ancora Piga, «carbonai in fustagno sporchi di fuliggine». Qualche studente figlio di cantoniere, qualche soldato triste. Ma anche detenuti ammanettati e sorvegliati da carabinieri in armi, come ricorda Maria Giacobbe in Diario di una maestrina. E innamorati, con cui da sempre le stazioni intrattengono un rapporto romantico più o meno gioioso. Successe all’antifascista Diddinu Chironi, protagonista del bel libro di Marina Moncelsi. «Poco discosta dalla stazione, una casetta anch’essa bianca, ma più piccola, è l’abitazione del casellante. Diddinu vede uscirne una ragazza che attira la sua attenzione; cammina scalza… trasporta pesanti secchi che ha riempito alla fonta». La donna di una vita.  

Due anziani alla vecchia stazione di Nuoro – Foto di Antonio Ballero (Fonte Sardegna Digital Library)

Esiste ancora la città-teatro?

A “Sa ‘e Marine” andava in scena, anche se in modo estemporaneo ed effimero, la società agro-pastorale nuorese del tempo, la stazione era il suo teatro “civico” – la civitas che si mostrava nello spazio pubblico. Si entrava e si usciva, si pagava un biglietto, proprio come a teatro o al cinema. Era un luogo del tutto inedito, senza passato. Lì arrivava, con il treno, il mondo vicino e lontano, la modernità, che rimescolava le carte del vivere e dell’abitare. Mutava il paesaggio fisico e sonoro, si sperimentava il tempo nuovo e sospeso del viaggio. Un luogo di conoscenza, di avventura, d’incontri, di speranze come di amarezze. Al fischio della vaporiera, Nuoro non si tirò indietro, non si chiuse,  ma – come ha scritto Sebastiano Satta – rispose «con l’eco dei suoi monti e con l’inno del lavoro che l’ingentilisce, la rafforza e la redime». Nuoro c’era perché c’era la sua stazione – e viceversa.

E oggi? Viene da dire che la stazione scomparsa sia in realtà quella attuale, almeno in termini letterari: la “stazione di carta”. La “nuova” stazione di Via Lamarmora conta soltanto tre citazioni localizzate nella Mappa Letteraria di Nuoro, contro le venti della vecchia stazione. I tempi sono cambiati, i treni hanno forse perduto in parte il loro appeal letterario del passato, nella stazione della Nuoro contemporanea non ci sono più microcosmi interessanti da osservare e raccontare. La stazione oggi è più grande, i treni sono più frequenti e veloci, è affiancata da un bel bar-pizzeria molto frequentato, ma le storie latitano. O forse è l’intera città-teatro ad essere scomparsa? Chissà. Comunque sia, a me piacerebbe che nella piazza Italia fosse posto un totem a ricordo della vecchia stazione come è stato giustamente fatto in altri luoghi per i Zigantes di Nuoro.

LA MEMORIA LETTERARIA DEI LUOGHI SCOMPARSI

Funtanedda

Ubisti

Due immagini del rione Sa ‘e Sulis fine anni ’50 – Fonte: foto di Janos Reismann postate in Facebook da Domenico Melia

Istiritta

Altre sparizioni a Istiritta

La “Pietra ballerina” in una cartolina di Sebastiano Guiso, anni ’20 – Fonte: Wikipedia

Le citazioni

Funtanedda: Grazia Deledda, La via del male e Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna // Nannino Offeddu, Immagini di Nuoro paese // Salvatore Ruju, Ritorno all’isola // Bachisio Zizi, Lettere da Orune Ubisti: Paolo Francesco Berria, Vocabolario sardo nuorese-italiano // Pietro Pala, Contos bos conto // Franceschino Satta, Sa funtana ‘e Ubisti Istiritta Fontana: Mario Ciusa Romagna, A Nuoro con Bernardino Palazzi // Roberto Deriu, La pantera di Bultei // Pasquale Dessanai, In s’abba // Enzo Espa, Nuoro non ama Nuoro // Ciriaco Offeddu, Deliberaciones // Romano Ruju, Il salto nel fosso Istiritta Pietra Ballerina: Vittorio Alinari, In Sardegna // Carlo Corbetta, Sardegna e Corsica // Alberto Della Marmora, Itinerario dell’isola di Sardegna // Pasquale Dessanai, Bibliografia // Massimo Pittau, L’Era fascista nella provincia italiana. Il Littorio a Nùoro // John W. Tyndale, L’isola di Sardegna Istiritta Mattatoio: Anonimo, La demolizione del mattatoio // Marcello Fois, Sangue dal cielo.

LA SOLITUDINE: LUOGO DELL’ANIMA DI NUORO

La Solitudine è un “topos” della geografia emozionale e letteraria di Nuoro. Una chiesetta alle pendici dell’Ortobene, una piazzetta, gli alberi, le valli, i monti lontani, il monumento di Maria Lai, la città sullo sfondo. Un luogo dove Nuoro finisce e incomincia, come una grande porta aperta su spazi diversi, che insieme fanno un mondo.  

La chiesa

La piccola chiesa della Madonna della Solitudine è il centro di questo microcosmo. Fu edificata nel Seicento e riprogettata da Giovanni Ciusa Romagna per accogliere, il 21 giungo del 1959,  le spoglie di Grazia Deledda traslate a Nuoro dal cimitero Verano di Roma. L’antica chiesetta è la casa di Maria Concezione, la protagonista del bellissimo romanzo deleddiano La chiesa della solitudine. Allora era “circondata davanti e da un lato da uno spiazzo rinforzato da un muricciolo che chiudeva una specie di orto”. Era l’orto coltivato da Ziu Linu, uomo giusto e premuroso, la lunga barba bianca del patriarca, amico e consigliere di Grazia Deledda. Per tanti anni visse, in povertà, nelle due stanzette addossate alla chiesa, le stesse di Maria Concezione. Allevava galline e maiali, pascolava “smunti branchi di pecore e capre”, come ha scritto Pasquale Mingioni, amato maestro in Nuoro e nel nuorese.

Le pareti interne della chiesa hanno il candore essenziale e sempre emozionante di un santuario campestre. La tomba dove riposa Grassiedda è una “cassapanca” in granito nero lucente. E’ bello immaginare che non sia sola, ma insieme ai personaggi dei suoi romanzi, eterni come lei, che percorrono il mondo “portando nelle loro misere bisacce fatte di pelo di capra i racconti di un’isola…” (Michele Pintore).

Un visitatore scatta delle fotografie al crocifisso dell’altare. Consegna lo smartphone al suo amico per farsi fare un ritratto accanto alla tomba. Sorride. Altre storie, altri mondi.  

La piazzetta

Il sole del pomeriggio illumina l’ingresso, lasciando in ombra il resto della chiesa. La luce sembra danzare sulle affascinanti figure ieratiche, di stile un po’ bizantino, incise sul portale bronzeo disegnato e scolpito da Eugenio Tavolara, che guardano “senza dir parola” (Mario Ciusa Romagna). E’ una porta di misteriosa e struggente bellezza, soglia tra sacro e profano, tra la chiesetta e il mondo.

Un merlo zampetta sul sagrato, poi vola via. Si sentono delle voci. Un cane abbaia, ma è poco più di un guaito, quasi avesse paura di disturbare.

La Solitudine è anche la piazzetta antistante la chiesa, in granito come la chiesa stessa e a questa congiunta da una bella scalinata. Ha una strana forma irregolare, come a imbuto. Il suo lato lungo confina con la strada, i cui rumori rompono di continuo la quiete del luogo. Dall’altro lato si restringe progressivamente fino al breve cammino in terra battuta che conduce al monumento di Maria Lai “Andando via” dedicato a Grazia Deledda. Qui, tra gli alti pini, “sa Solidae” si fa silenzio, meditazione, arte di abitare diversamente il mondo, la natura, l’altro. 

La Solitudine offre tanti posti a sedere: le vecchie panchine in ferro, i più recenti blocchi in pietra. Ma pochi vi si siedono. Del resto, un posto con quel nome non potrà mai essere un posto affollato. E’ una piccola piazza contemplativa, di raccoglimento, animata da presenze discrete, che aumentano nel tardo pomeriggio. E’ un po’ il “finis terrae” di Nuoro, il suo lembo di terra “sacra” e incantata, il suo promontorio luminoso immerso nel verde, all’inizio della salita al Monte e della discesa verso la valle di Marreri.

LA FONTANA DI ISTIRITTA, MEMORIA DELL’ACQUA

La memoria dell’acqua

LA MEMORIA DEL TERRITORIO: MAPPE LETTERARIE A CONFRONTO A MILANO

La memoria del territorio: questo è il titolo dell’evento che il prossimo 16 novembre metterà a confronto, nell’ambito di BookCity Milano 2023,  esperienze di mappe letterarie sviluppatesi negli ultimi anni. Dalla grande metropoli (Milano), alla piccola città (Nuoro), alla regione (Canton Ticino), al singolo quartiere urbano (Bicocca). Si tratta di contesti territoriali molti diversi e lontani, ma accomunati da un capitale letterario depositato nei luoghi quale elemento costitutivo fondamentale delle loro identità. Il Duomo di Milano che dialoga con la Cattedrale di Santa Maria della Neve di Nuoro, il Monte San Giorgio con il Monte Ortobene, Lugano con la Bicocca. E’ come se le mappe, accostandosi e interagendo l’una con l’altra, disegnassero uno spazio letterario globale fatto di intrecci, rimandi, assonanze e dissonanze. E’ che la letteratura è una forma di condivisione universale, forse l’unica ancora rimasta, spazio di vita vivibile. 

Una mappa letteraria non può essere che la memoria del territorio che racconta. Se la letteratura è, già di per sè, memoria e sogno del mondo, la mappa letteraria, che ne raccoglie le parole calate nei luoghi, è memoria di memorie, sogno di sogni. Sorta di archivio vivente in continuo divenire, la mappa letteraria è quindi un potente strumento di attivazione di nuovi rapporti con i luoghi,  le loro memorie, i loro valori, le loro bellezze. Nella mappa, ogni citazione letteraria è una crocevia di percorsi e vagabondaggi costantemente sospesi tra memoria e fantasia, tra il qui e l’allora del luogo e l’altrove del sogno. Una mappa che diventa subito anche una mappa sentimentale, intrisa di dolcezza e nostalgia.  Come quando, in particolare, ci imbattiamo in una citazione che ci parla di un luogo ormai scomparso da tempo.

Ci vediamo a Milano.