Sant’Onofrio è uno dei “sette colli” di Nuoro, decisamente il più bello. Fu un luogo molto amato da Bustianu, come ancora oggi i nuoresi chiamano affettuosamente l’ammirato “vate di Sardegna” e “principe del foro” Sebastiano Satta. Vi saliva spesso per passeggiare, respirare. “Avevo il mio spazio in una radura brulla che faceva da terrazzo in direzione del versante di Badde Manna” (Marcello Fois, Sempre caro). Si accomodava sul suo sedile di granito “scolpito dal vento”. Guardava, ascoltava. Tutt’uno con la natura, la terra, il volo di un astore, “… i monti / sereni alti splendenti / di gelo, e di gementi / fonti” (Sebastiano Satta, Sgelo). E lì, sulla cima del sempre caro, si vedeva con Clorinda, il suo amore osteggiato da Raimonda, la madre.
É così anche in questo pomeriggio ventoso di settembre, quando salgo a Sant’Onofrio con le parole della Mappa Letteraria di Nuoro – che in questi giorni ha superato le 1000 citazioni di cui 28 localizzate sul colle – per cercarne le immagini. Seduti su una panchina, non più sulla roccia, un uomo avanti negli anni guarda dalla parte di Isporosile e del Monte; un giovane dalla parte opposta verso Cuccullìo, il colle dirimpettaio. Immobili, assorti. Sotto, le propaggini di Nuoro, Monte Jaca e Mughina, che precipitano a valle. Sale un rumore sordo di città, un abbaiare lontano di cani.
Lo sguardo si muove nello spazio, va al largo, nelle terre alte, dà sollievo all’anima inondata di luce, rigenera. “Stare lì mi faceva bene: ero come un malato che riprendeva le forze” (Alessandro De Roma, La mia maledizione).
Sant’Onofrio: una storia travagliata
Sant’Onofrio è il sublime di Nuoro, il suo volto sereno e meditabondo. Ma è anche un luogo ferito da una lunga e travagliata storia di sparizioni e manomissioni. L’antica chiesa intitolata a Santa Marina, e in seguito a Sant’Onofrio, caduta in rovina già nell’Ottocento, andò completamente distrutta all’inizio del periodo fascista. Al suo posto o nelle sue vicinanze, e con le sue pietre, sorse “villa Antonietta”. Qualcosa di più di un semplice “villino”. Un vero e proprio castello in stile neogotico, una presenza inaudita, che “si staccava dall’abitato e guardava la vallata degli ulivi e dei mandorli, sfidando la maestosità dei monti lontani” (Bachisio Zizi, Santi di creta). In quegli stessi anni sparì per sempre il nuraghe millenario, sepolto dal fragore delle mine, che rimbombavano in tutta Nuoro annunciando la nascita del deposito dell’acqua (Massimo Pittau, L’Era fascista nella provincia italiana). La storia di Nuoro è anche la storia delle sue tante “cancellazioni”.
Nel frattempo si costruisce la nuova strada sino alla cima del colle, si erigono muri e contrafforti, si piantumano nuovi alberi. Il Colle si avvia a diventare Parco, che per la “Nuoro Littoria” del 23 marzo 1934 – come riporta Paolo Casu in Il ricordo di un grande – “sarà fonte di vita ai bambini, riposo sereno ai vecchi, sorgente di ispirazione ai giovani”.
Il monumento della vergogna
La ferita più grande – ancora sanguinante – fu però la spoliazione e distruzione progressiva del monumento dedicato a Sebastiano Satta compiute da vandali e trafuganti. Come racconta sarcastico Gavino Pau in Il mio paese è il più bello del mondo, dapprima scomparve “la donzella in cima”, ossia la madre del poeta. Quindi la faccia barbuta dello stesso Bustianu,”le pecore rognose” accanto al cane di cui “rimase un pezzo di coda e due stecche di ferro contorto”. Per il pilastro “ci pensò il Padreterno, che, una notte, durante un temporale, lo colpì ripetutamente col fulmine”.
Oggi del monumento a Sebastiano Satta in Sant’Onofrio rimangono soltanto la stele ricostituita e il basamento su cui poggia. Come il fantasma di un monumento defuto – che sin dalla sua inaugurazione avvenuta il 9 dicembre 1934 i nuoresi dissero essere più un monumento al cane che al poeta (Franco Floris, Il capoluogo). Ma lì dietro palpita la vita di giovanissimi innamorati, che si scambiano tenerezze. Il Corrasi di Oliena – “il monte più bello che Dio abbia creato” (Salvatore Satta) – li guarda da lontano e sorride.