La fontana di Istiritta di Nuoro non esiste più da lungo tempo, è scomparsa una sessantina di anni fa. Quella che si vede oggi nella piccola piazza Mario Soldati lungo la via Veneto non è la “vera” fontana, ma un sua ricostruzione, una piazzetta monumentale inaugurata negli anni ’90 del secolo scorso.
La fontana originaria, mi racconta il poeta Gianni Manca, si trovava sul lato opposto della strada, più o meno in corrispondenza dell’edificio che ospitò il Provveditorato agli Studi di Nuoro e attualmente destinato, dopo la riqualificazione, a diventare la “casa” degli studenti pendolari. La fonte sorgeva sotto il livello stradale, come in un fosso, vi si accedeva tramite una rampa di scalini scivolosi e sconnessi. Al suo fianco era collocata una panca di granito, come quella che si usava costruire accanto alle porte d’ingresso delle case. L’acqua usciva copiosa da “su càntaru”, il tubo metallico sotto il quale si metteva la brocca o si avvicinava la bocca per dissetarsi. Tutt’intorno la campagna, orti e solo orti, che “andavano giù sino a Mughina”, dice Gianni. E tanta acqua, nelle fonti, nelle vasche, nei pozzi delle case. «Quando scoppiava un incendio,» ricorda ancora Gianni Manca «i pompieri andavano a riempire l’autobotte nel pozzo della casa di mia nonna».
La nuova fontana-monumento è asciutta – chissà da quando. Per bere un po’ d’acqua bisogna recarsi al bar accanto, che ne riprende il toponimo. “SaFuntana de Istiritta” si chiama appunto, un bar molto accogliente, ma non è e non era la stessa cosa. Io ci vado spesso per prendere un caffè, una pizzetta di metà mattina, dato che abito nei dintorni.
La memoria dell’acqua
Nella graziosa piazzetta campeggia, quasi di fronte alla fontana, la bella statua bronzea dell’artista Pietro Costa ispirata alla figura di Mariedda, resa famosa dal sonetto “In s’abba” di Pasquale Dessanai, poi musicato dal Coro di Nuoro. Mariedda lotta contro il vento, il volto teso e intirizzito, gli occhi quasi chiusi,”tottu tostorada”, perché “fit una die ‘e iberru mala e fritta”. E la neve cade su di lei “a froca lada”. Tornando alla casa padronale, la brocca le scivola a terra rompendosi e pensa angosciata che le toglieranno il freddo “a suon di frustate”. Mariedda è soltanto una servetta di fine Ottocento.
“La fontana venne giù senza un lamento, piena di dignità” (Romano Ruju, Il salto nel fosso). Scomparve la campagna, tutt’intorno sorsero nuove case e “si incominciò a vivere da estranei”. Con gli orti sparì anche la composita fontana di allora, i suoi cocci rimasero a lungo “accatastati in un angolo sporco e abbandonato”. Sopravvisse soltanto la fonte a cupola, racconta ancora Romano Ruju, ignorata da tutti e ormai inutile come una “creatura fuori tempo”.
Il tempo arcaico dell’acqua generatrice di manufatti, di ambienti, di riti e leggende, di relazioni, era finito per sempre. Fonti e fontane, lavatoi e abbeveratoi, vasche e pozzi, avevano esaurito l’antica funzione di perni della vita comunitaria e famigliare. Fuori tempo, fuori spazio. La povera Mariedda sferzata dal vento gelido e la sua brocca spezzata sono la memoria di quel mondo, la memoria dell’acqua.