Grazia Deledda è l’autore con il maggior numero di citazioni contenute nella Mappa Letteraria Nuoro. Sono attualmente 76 (il 7% del totale) provenienti da 30 opere. Una presenza rilevante, non solo sul piano della quantità, ma anche, e sopratutto, su quello della qualità. É sembrato quindi utile dedicare alla grande scrittrice una mappa letteraria specifica riutilizzando, con una semplice operazione di copia e incolla, tutte le citazioni già inserite nella mappa “genitrice”. Ciò consente una lettura più attenta dei frammenti deleddiani, cogliendo meglio il valore di una scrittura e di una immaginazione fortemente compenetrate ai luoghi. Tutta l’opera di Grazia Deledda è una vera e propria topografia di spazi conosciuti, amati, vissuti e trasfigurati nella finzione letteraria. A Roma è il paesaggio nativo rimpianto e ritrovato nel gesto dello scrivere, il paesaggio interiore della memoria che si fa racconto. Nuoro e la Sardegna sono rimasti là, lontani, oltre il mare, per sempre perduti e per sempre indimenticati. É la “restanza” di un viaggio senza ritorno.
Tra il dentro e il fuori
Lo spazio narrativo di Grazia Deledda si muove costantemente tra un “dentro” e un “fuori”. Il dentro è lo spazio intimo e protettivo di La casa paterna (1890), che ritorna in Il paese del vento (1931) e in Cosima (1937). E’ il tavolino nella camera da letto, lo scrittoio amato “come un’amico d’infanzia, come un essere vivente”, sognando l’altrove. Ma il dentro della casa è anche uno spazio chiuso, un confine che limita la libertà, oltrepassabile, per la giovane Grazia, soltanto attraverso la rêverie e la scrittura. E’ la “grande culla” (Gaston Bachelard) a cui le anime sognatrici non smettono mai di tornare.
Il fuori è lo spazio aperto della tanca, del bosco di “elci secolari”, del Paesaggio di granito (1896) del Monte Ortobene. Nelle ricorrenti – e spesso bellissime – descrizioni di Grazia Deledda, la natura e il paesaggio non sono dei semplici ritagli panoramici, cartoline o vedute più o meno suggestive. Non sono oggetti dello sguardo distaccato della scrittrice, ma presenze che guardano e toccano la scrittrice come in un reciproco vedersi e sentirsi.
L’animismo di Grazia Deledda
In una lettera a Salvator Ruju del 1906, Grazia scriveva: “Veda, quando io sto sull’Orthobene, e seduta su una roccia guardo il tramonto meraviglioso, mi pare d’essere una cosa stessa con la roccia…”. La roccia è viva e vive in lei in una relazione di profonda empatia simile all’animismo. Non molto diverse le parole del filosofo Maurice Merlau-Ponty scritte quarant’anni dopo in Fenomenologia della percezione. “Io che contemplo l’azzurro del cielo… non lo possiedo nel pensiero… ma mi abbandono ad esso, mi immergo in questo mistero, esso si pensa in me, io sono il cielo stesso”. É il corpo che si fa mondo e il mondo che si fa corpo. Questo è forse l’aspetto più attuale, emozionante e geniale della letteratura di Grazia Deledda.
Tra la casa natale e il Monte, i luoghi intermedi della vita comunitaria: la chiesa, lo stradale, la piazza, la fontana, la cantoniera, il mulino, il frantoio, il vicinato. Ma qui la ricca topografia deleddiana non sempre si associa, specie nelle novelle, alla toponomastica, alla nominazione dei luoghi, e la possibilità di individuare citazioni geolocalizzabili nella nostra mappa si riduce. In confronto, Salvatore Satta o Bustiano Murgia sono molto più “cartografici”. In ogni caso è sempre presente un tessuto di luoghi, di paesaggi e di spazi intramato alle storie, arricchito anche dalla presenza non secondaria degli oggetti, che sorregge l’intero impianto narrativo di gran parte, se non di tutte, le opere di Grazia Deledda. Doveva essere un’appassionata e attenta camminatrice, Graziedda.
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